Make it or break it, direbbero gli anglofoni. Tradotto in italiano, un più semplice “o la va, o la spacca”. Ralf Rangnick è l’ennesimo tentativo di rinascita che una squadra – e una dirigenza – senza identità tenteranno per riportare in auge il Milan. O almeno, tutti gli indizi portano a lui, pur sapendo che tanto per le mutevoli dinamiche calcistiche quanto per l’indole del personaggio in questione, tutto può cambiare in un batter d’occhio. Ad ogni modo, al momento pare certo che il futuro di Stefano Pioli, come facilmente preventivabile, sarà lontano da Milanello; oltre ciò, di nomi di possibili alternative credibili al tedesco non ne sono ancora stati fatti, a prescindere dall’immobilismo che il mondo del calcio sta vivendo in questo periodo storico. Insomma, tutti gli indizi portano a Rangnick, uomo che fa dello scouting, dell’organizzazione e delle capacità motivazionali i propri punti di forza. D’altronde, se così non fosse, non sarebbe riuscito a catalizzare positivamente su di sé un ruolo tanto eclettico quanto delicato come fatto durante la sua esperienza nell’universo calcistico che fa capo alla Red Bull. Il tutto, non dimentichiamolo, valorizzando e stimolando attivamente giovani calciatori trasformatisi sotto la sua guida in stelle lucenti. Giovani, come detto, che per definizione sono discontinui e avvezzi a seguire più le proprie lune, che le altrui indicazioni.
Ciò che mi piace di Rangnick è il suo essere un “self made man” del mondo del calcio, uno che non è mai sceso a compromessi e che è stato in grado di imporsi con la propria cifra tattica, stilistica e personale. Ciò che non mi piace, come detto da Johnson, è il suo essere estremamente lontano dal modo di fare calcio che abbiamo in Italia, dove le camarille e la politica, la paraculaggine e la malizia la fanno da padrone. Riuscirà a resistere alle pressioni nostrane? Non possiamo saperlo, ma se teniamo per buone le ultime notizie divulgate sul futuro del tedesco e del Milan, Ralf si sta creando gli anticorpi per poterlo fare. Un po’ come funziona con i vaccini, certo un argomento fin troppo inflazionato in questi mesi, il mister teutonico conosce i rischi che potrà correre di qui al futuro prossimo e starebbe già organizzando le risposte immunitarie da sguinzagliare alla comparsa dei primi sintomi. Come detto, il mondo del calcio italiano venera la personalità in modo quasi ossessivo. Un Mourinho qui ci è andato a nozze, ha fatto impazzire i propri haters quasi quanto (se non più) dei propri tifosi. Allo stesso modo, un de Boer (perdonate gli esempi interisti, ma sono i primi che mi sono venuti in mente) è stato mangiato vivo tanto dai media quanto dall’interno dell’ambiente nerazzurro. Un modo per aggirare il problema, o almeno quello che pare abbia trovato Rangnick, sarebbe semplice e funzionale: contornarsi di uomini di fiducia. E non parliamo solo dello staff tecnico, ma anche di osservatori, dirigenti, collaboratori del settore giovanile e chi più ne ha più ne metta. Insomma, vuole costruirsi un fortino attorno per poter lavorare con calma e senza doversi preoccupare della direzione da cui arriveranno le coltellate contro la sua persona.
Questo perché la parola chiave attorno cui dovrebbe girare il suo Milan è “controllo”, che poi è il concetto che troppo è mancato in questi anni. Per fare un buon lavoro, il tedesco sa che dovrà conoscere per filo e per segno qualsiasi cosa accada nel proprio raggio d’azione, senza investire tempo ed energie nel guadagnare influenza. Questo è un punto chiave per avere successo nello scenario post apocalittico che si è sviluppato tra Carnago e via Aldo Rossi. Sarebbe la replica del concetto garciano del “rimettere la chiesa al centro del villaggio”, o meglio, del ricostruirla dalle fondamenta, con l’impresa edile di propria fiducia. Solo così i risultati potranno essere positivi, e da tedesco, che nell’immaginario collettivo italiano è sinonimo di ingegnere, l’allenatore del Lipsia lo sa fin troppo bene.
La sensazione è tuttavia, per ricollegarsi al titolo del post, che questa sia l’ennesima ultima occasione per il Milan, che di giorno in giorno sta diventando sempre di più la creatura dell’amministratore delegato Ivan Gazidis. So che non è probabilmente la prima volta che scomodo questo modo di dire in questi anni, ma mettendo da parte le antipatie che ognuno di noi può nutrire nei confronti del dirigente sudafricano, non si può negare che non sia il modo più naturale possibile che si ha per riedificare qualcosa da zero: progettando, analizzando e lasciando campo libero ai professionisti. Non che i vari uomini di campo o scrivania succedutisi in questi anni non lo fossero, ma erano tutti, chi più chi meno, improvvisati. Se non nelle competenze specifiche, nel proprio ruolo. Da Montella a Fassone, da Maldini e Boban a Mirabelli, Gattuso e Pioli, nessuno di loro possedeva al 100% l’esperienza e/o e il know how per poter sopravvivere al nostro ambiente, nemmeno le ex bandiere citate. Ma soprattutto, nessuno di loro ha avuto la possibilità di costruirsi attorno una cerchia di uomini di fiducia su cui contare, a cui affidarsi mani e piedi a occhi chiusi. A Rangnick, almeno a quanto pare, questa possibilità sarà data. Ci conviene sperare che i risultati siano diametralmente opposti a quelli che abbiamo giocoforza subito finora. Non solo perché vincere è quello che ogni tifoso spera per la propria squadra del cuore, ma soprattutto perché se anche stavolta dovessimo fallire non sapremmo più che altro fare per rinascere.
Fab
Seguiteci anche su