Ubi maior, minor cessat. Cominciamo dal principale – e purtroppo tragico – avvenimento della settimana. Ho voluto condividere il mio minuscolo omaggio a Kobe Bryant sul profilo Twitter di Milan Night, lunedì scorso. Con voi vorrei parlare di altro. Ho riflettuto molto prima di decidere di condividere qualche pensiero sulla copertura mediatica che i quotidiani sportivi italiani hanno deciso di dedicare all’incidente di domenica sera. Inizialmente avevo valutato di non farlo per non dare l’idea di voler gettare benzina sul fuoco di una polemica odiosa, ma alla fine ho optato per farlo. Perché? Beh, per mettere ulteriormente nero su bianco un concetto: quello per cui i quotidiani sportivi italiani – e per osmosi i giornalisti che li scrivono – debbano essere necessariamente ignorati, nel bene e nel male.
Non voglio tenere lezioncine, né ergermi a esperto in materia. È anche vero, tuttavia, che un minimo di formazione nel campo ce l’ho: ho sempre lavorato nella comunicazione e, nel mio piccolo, sono un giornalista pubblicista. So quindi che questo mestiere può essere tremendamente complicato, come del resto tutti. Per essere un buon professionista nel campo dell’informazione servono una tonnellata di competenze e parecchia esperienza. Bisogna innanzi tutto trovare la notizia, saperla coltivare rispettando le fonti, comprendere i punti salienti della storia che si ha tra le mani, trattarla con accuratezza e verificando i fatti, narrarla in maniera comprensibile e interessando l’audience, essere obiettivi, analizzare i motivi per cui la storia si è sviluppata in questo modo, prevederne le possibili conseguenze, lavorare sotto pressione e, non da ultimo, comprendere e se necessario empatizzare con i lettori. Tutte queste competenze possono essere utilizzate alternativamente o, a volte, contemporaneamente. È un lavoraccio, ve l’assicuro. Insomma, mi sono davvero messo nei panni di chi ha trattato il tema della morte di Kobe Bryant, senza giungere alle conclusioni che esporrò in quanto travolto dall’emotività. Ad ogni modo, a mio avviso quanto abbiamo potuto constatare lunedì mattina è stata, come ha ben espresso Marco Belinelli in un suo twit, la dimostrazione che i quotidiani sportivi italiani non sono quotidiani sportivi. La Gazzetta dello Sport, il Corriere dello Sport e Tuttosport hanno relegato la notizia della tragedia di domenica a un titolo di secondo piano, dando maggior risalto al risultato di Napoli-Juve. A onor del vero la Gazzetta ha trattato la storia ampiamente all’interno del quotidiano, ma la prima pagina è il primissimo impatto che si ha del numero di un giornale, ciò che ti colpisce, ciò che restituisce al lettore il senso dei fatti più importanti accaduti nel mondo nelle 24 ore precedenti. Il 12 settembre 2001 nessuno, al Corriere della Sera, si è sognato di non dedicare l’intera prima pagina all’attentato delle Torri Gemelle perché “tanto lo trattiamo bene all’interno”.
Questa è più o meno la tesi di Sebastiano Vernazza, giornalista della Gazzetta dello Sport, che, un po’ per convinzione e un po’ per amor di patria (anche se il suo ex collega Umberto Zapelloni ha criticato le prime pagine di lunedì), difende la testata. Come dire, certo, abbiamo ritenuto più importante la vittoria del Napoli al San Paolo a dispetto della dipartita di uno dei più grandi sportivi di sempre, ma ehi, gli abbiamo dedicato quattro pagine! Una difesa sterile e ulteriormente illogica: se la morte di Kobe è stata trattata addirittura in apertura di quotidiano, prima di tutto il resto e così ampiamente, a maggior ragione perché non dedicarle i tre quarti (o più) della prima? Delle due l’una. Su una simile lunghezza d’onda Stefano Olivari, direttore di Indiscreto: qui il post.
Il riassunto del concetto esposto è: a parte che di Bryant si è parlato in lungo e in largo, i “dementi da social” hanno voluto giudicare i titoloni, che erano nient’altro che espressione dello scarso interesse che l’italiano medio ha nei confronti dell’NBA. Il che, non nascondiamoci, per certi versi è anche vero. Non più tardi di due settimane fa mi trovavo in un bar di Treviglio: a un tavolo poco distante dal mio quattro ultrasettantenni discutevano su chi fosse il migliore allenatore, se Allegri o Trapattoni (per dire… parlavano di Trapattoni nel 2020). È un po’ come quando al TG parlano solo di sfuggita dell’attentato dinamitardo nel cuore di Kampala: non interessa e non ci tocca, a meno di italiani coinvolti. Ad ogni modo, Olivari cade nella stessa contraddizione di Vernazza: se ne ha parlato addirittura il TG1 “che non tratta mai l’NBA”, e se internamente i giornali ne hanno dato risalto dando precedenza a questo fatto piuttosto che al Campionato, perché non farlo anche in prima? Ancora non si capisce.
Difesa della categoria anche per Fabio Ravezzani, che definisce provinciali coloro che hanno paragonato la copertura mediatica data alla morte di Kobe in Italia con quella di altri paesi (Francia e Spagna). Cominciando col dire che è curioso che questo j’accuse arrivi chi va in onda su un canale che si chiama Telelombardia (il cui sito ci informa che trasmette in Lombardia, appunto, e in parte del Piemonte, Liguria e Nord Est… insomma, non mi pare abbia esattamente il respiro internazionale di ESPN), il paragone con l’estero a noi vicino è stato fatto in quanto si presuppone che in quei Paesi ci sia una sensibilità nei confronti dell’NBA simile a quella che c’è in Italia. Non si capisce quindi perché alcuni tra i giornali sportivi più settoriali sulla faccia della Terra (penso a Mundo Deportivo, Marca e AS) abbiano dedicato tutto il paginone a Kobe e la Gazzetta, il Corriere e Tuttosport no. Ma a parte tutti questi elementi, sono le reazioni planetarie che dovrebbero dimostrare una volta per tutte quanto le difese d’ufficio siano sterili: non solo da noi le bacheche social sono colme di ricordi di Kobe, ma in Africa, Asia, Sud America e Oceania, dappertutto, appassionati sportivi e non sono rimasti sconvolti da quanto accaduto. Lo stesso Mattarella ha voluto ricordarlo. La personalità dell’uomo, le circostanze della tragedia e naturalmente la sua innegabile fama intercontinentale vanno oltre a qualsiasi camarilla, polemicuccia o lotta Scudetto. Ogni giornale sportivo che si reputi tale avrebbe dovuto mettere tutto il resto in secondo, terzo, quarto piano, un po’ come fatto dalla stessa rosea il giorno dopo la morte di Alì (e in quel caso nessun “demente social” si lamentò, sorprendentemente).
L’ultima considerazione di questo lungo pippone è invece dedicata non al fatto in sé, ma alle reazioni scomposte dei giornalisti stessi. Posto che essere insultati non è mai piacevole e comprendo la tentazione a rispondere a tono, trovo a tratti isterici alcuni loro comportamenti. Vernazza, ad esempio, dopo aver usato un hashtag che riportava il nome di Bryant scritto non correttamente (e in quanto giornalista dovrebbe quantomeno rileggere ciò che scrive, se non verificare lo spelling, se in dubbio), ha accusato dell’errore tutti quelli che lo avevano utilizzato prima di lui, che lo hanno così indotto in errore. Credo che queste reazioni nascano da due elementi: in primis la frustrazione di doversi rapportare fin troppo ossequiosamente nei confronti di dirigenti, procuratori, calciatori e interlocutori vari più “potenti” di loro, e quindi di rimando cercare di ribaltare la situazione con chi avvertono come inferiore (noi altri poveracci); in secondo luogo dal fatto di capire di essere considerati degli incapaci, per non essere volgari. Se nel primo caso c’è poco da fare, per il secondo posso fornire una rassicurazione: anche prima dei social gran parte degli italiani pensavano che i giornalisti fossero degli incapaci, la differenza è che ora glielo possono far sapere. Inoltre, non credo sia un’ottima tattica per i giornalisti insultare i potenziali acquirenti dei quotidiani. Già la categoria è in crisi (l’unico giornale che in questi anni non ha perso lettori, e che anzi ne ha guadagnati, è Avvenire, per gli altri si tratta di una mattanza), se poi si mandano pure a quel paese è evidente che si ha ben poca coscienza della propria situazione. Insomma, se anche in casi tanto elementari i giornalisti dimostrano di essere totalmente scollegati dalla realtà che dovrebbero raccontare, a maggior ragione trovo controproducente, per noi, dare loro più importanza di quanta ne meritino, cioè pochissima.
Chiudo il pezzo con poche considerazioni rapidissime.
È vero che l’arrivo di Ibra ha cambiato mentalità alla squadra e che il 442 ha mischiato le carte delle gerarchie, ma i meriti dei vari Rebic, Leao e Castillejo sono enormi. Tutti e tre hanno lavorato bene e atteso il momento giusto per imporsi: questa è la mentalità che serve.
Non conosco Antonee Robinson, ma credevo che potesse essere una scommessa interessante per la nostra squadra. Mi dispiace quindi che sia saltato all’ultimo. Spero tuttavia che ci sia spazio per riparlare del suo acquisto in estate. Non conosco nemmeno Saelemaekers, ma come tipologia di affare mi stuzzica. Speriamo bene.
Infine, continuo a insistere: mi piacerebbe davvero tanto vedere prima o poi Hernandez esterno di centrocampo. Così come mi piacerebbe vedere Calhanoglu interno di centrocampo al fianco di Bennacer, magari staccandosi in avanti modificando il 442 in 4312, almeno in fase di possesso. Il turco ha tanti difetti e non ha reso come ci si aspettava, ma a questo punto, visto che rimane qui e che per i prossimi 4/5 mesi non abbiamo nulla da perdere, almeno proviamo qualche soluzione differente, così da avere le idee più chiare su come costruire la squadra del prossimo anno. E se magari si ripiglia emotivamente, lo stesso discorso vale – perché no – per Paquetà. Su entrambi il Milan ha investito circa 50 milioni di euro. Diamo loro un’ultimissima possibilità, di certo non abbiano nulla da perdere (né noi, né loro).
Fab
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