Ritratti – Cesare Maldini

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I più attenti di voi noteranno sicuramente che questo articolo è stato pubblicato lo scorso anno. Lo ripubblichiamo nella serie RITRATTI perché lunedì scorso si è celebrato il compleanno di uno dei più grandi della nostra storia: Cesare Maldini.

Terra di confine – Duecentoquattromila abitanti, quindicesima città italiana per numero di abitanti, Trieste è il primo porto italiano per il volume di merci transitate. I due dati, relativi al biennio 2013/2014, sono, curiosamente, simili a quelli di inizio Novecento. Allora la città aveva più di duecentomila abitanti ed era il porto più importante del Paese. La nazione tuttavia non era la stessa; all’epoca infatti Trieste era lo sbocco sull’acqua più importante dell’Impero Austroungarico. Nei periodi bellici successivi la città irredenta diventa territorio italiano, poi jugoslavo, porto franco ed infine nuovamente italiano. Italiani, tedeschi, sloveni, ungheresi, serbi, croati, greci si mischiano in una città mitteleuropea fin che vuoi ma pur sempre terra di confine. E, siccome vivere al confine non è facile a nessuna latitudine, terra di gente che deve giocoforza essere “dura”, netta e determinata. È proprio in quel tipo di contesto che il 5 febbraio del 1932 vede la luce tale Cesare Mladic che, a causa dell’italianizzazione dei cognomi imposta dal fascismo, verrà registrato all’anagrafe come Maldini.

Carriera – Andate su internet e leggetela, non è quello che ci interessa in questa sede. Triestina, Torino, Nazionale italiana ma soprattutto Milan di cui è uno dei grandi della storia. Numeri impressionanti da calciatore con 347 partite (e soli tre gol) buona parte delle quali giocate con la fascia di capitano al braccio. Fascia che eredita quasi direttamente (nel ’61 è brevemente sulla maglia di Francesco Zagatti) da un altro grande della nostra storia, Nils Liedholm. Con quella maglia Cesare vince quattro campionati italiani, una Coppa Latina (la “mamma” della Champions League) e una Coppa dei Campioni, la prima vinta da una squadra italiana. Quel pomeriggio del 22 maggio 1963 i protagonisti sono Altafini che con la sua doppietta che batte il Benfica di Eusebio e Cesare, una volta Mladic, Maldini che alza nel cielo di Wembley la coppa dalle grandi orecchie per una fotografia che farà la storia.
La seconda vita del “mulo” (come vengono chiamati i ragazzi a Trieste) è sulla panchina come assistente prima, allenatore poi ed infine commissario tecnico. Milan, Foggia, Ternana e Parma nei club; Under 21, Nazionale Maggiore e Paraguay con le nazionali. Vince anche qui, tanto. Coppa Italia e Coppa delle Coppe nel Milan, tre campionati europei under 21, un campionato del mondo nel ’82 come vice di Enzo Bearzot. Da “cittì” della nazionale maggiore nel ‘98 esce agli ottavi ai rigori contro la Francia padrona di casa e porta il Paraguay agli ottavi nel 2002. Aggiungiamo al suo palmares una panchina d’oro alla carriera e l’induzione, postuma, nella Hall of Fame del calcio italiano.

Il giocatore – Centottantatre centimetri di altezza per settantasei chili di peso salì alla ribalta come terzino impiegato indifferentemente sia sulla fascia sinistra sia su quella destra, per poi andare a ricoprire stabilmente negli anni conclusivi il ruolo di libero. La definizione, presa quasi letteralmente da wikipedia, non è quella di Paolo Maldini ma è quella di suo padre Cesare. Simili. Nell’aspetto, nella tecnica, nel carisma, nella durezza mentale, nei trofei ed in quella foto in cui alzano al cielo la Coppa dei Campioni. Sempre da wikipedia: Considerato uno dei migliori difensori italiani della sua generazione, i giornali dell’epoca lo descrissero come un atleta dall’ottimo fisico, abile di testa, con un buon tocco di palla nonché abile a leggere i tempi dell’azione. Tra le sue pecche, talvolta eccedeva in sicurezza e leziosità, incappando in amnesie difensive che fecero nascere nel gergo calcistico del tempo il neologismo di maldinate. Calciatore moderno già negli anni sessanta in un mondo dove le cose di tecnica le facevano quelli dal numero “7” in su, giocava come avrebbe giocato il figlio trenta anni dopo. Un precursore, un uomo determinante nello scacchiere del catenaccio del suo concittadino Nereo Rocco. Che forse tutto questo “catenaccio” non era…

L’uomo – Proprio Nereo Rocco di quel suo “mulo” ebbe estrema fiducia: «Parlé col mio capitano» diceva quando voleva chiudere una discussione perché il suo carisma era evidente, perché la fascia sul quel braccio era ben posta. Mai una polemica, mai una parola fuori posto. Esempio: con quel curriculum stridono le sole dodici partite in nazionale. Esempio: la prima panchina ufficiale è quella del Milan ed in un triennio arrivano due trofei ma le panchine successive sono solo di provincia. Esempio: al mondiale ’98 l’Italia gioca un buon calcio e viene eliminata ai rigori dalla nazionale padrona di casa e futura vincitrice del torneo. Dimissioni al ritorno a casa e nuova avventura. Idem con la nazionale paraguaiana senza stare a dire “ma io vi ho fatto raggiungere un traguardo storico…” come dopo il mondiale di Francia non ha detto “ma se Di Biagio non avesse sbagliato quel rigore…”. Triestino vero, uomo netto e determinato. Finita un’avventura, poche manfrine; si mette un punto e si passa al capitolo successivo. Ottimo custode dei valori rossoneri lungo un filo (rossonero) che parte da Liedholm, passa per lui, Rivera, Baresi e termina con suo figlio. Stesso cognome, stessa maglia, stessa fascia, stesso onore.

La maglia – Onore nostro che abbiamo avuto come capitano e guida uno che, nel libro “Seconda pelle” (la storia completa delle maglie del Milan), scrive questo: “Indossare la maglia del Milan era ogni volta per me un’emozione fortissima, perché ogni volta sapevi che saresti entrato a far parte della storia del calcio. Personalmente, sono sempre stato un grande appassionato di maglie e conservo tutte le casacche con le quali ho giocato nel corso della mia carriera. Ho ancora la maglia del mio debutto in rossonero: Era il 19 settembre 1954, quando giocammo contro la Triestina, la squadra dalla quale provenivo, e vincemmo. Entrare a San Siro, percorrere il tunnel con la maglia rossonera sulla pelle era un’emozione pura che non è mai passata né diminuita negli anni. Sempre unica e incredibilmente elettrizzante perché San Siro offre ogni volta brividi incredibili. Nel corso della mia carriera sono cambiate le maglie, i tessuti, a volte avevi maglie rossonere, altre volte bianche, ma quel sentimento di orgoglio e di forza che provavi quando la indossavi è sempre stato immenso. La maglia del Milan regala grandi suggestioni in ogni momento e in ogni luogo del mondo perché quando la vesti sai che rappresenti la società, la tua città e il Milan nel mondo.” Non serve nessun altro commento.

Bonus track – Come nei migliori album aggiungiamo tre cose che sono “extra curriculum” ma che delineano la grandezza del personaggio. Due episodi tristi ed uno che ci regalerà una gioia fino alla fine dei tempi. Il 27 maggio 2016 a Milano in Via Tesio, nelle immediate adiacenze dello stadio di San Siro, viene aperto al pubblico un parco che porta il nome di Giacinto Facchetti e Cesare Maldini. Se andate allo stadio a vedere il Milan di oggi fateci un salto. Non è il posto più bello del mondo ma è bello pensare che il nostro capitano abbia un luogo intitolato a sé all’ombra dello stadio che lo ha visto tante volte protagonista.
Andiamo a ritroso. È il 5 aprile del 2016 e Milano si stringe attorno alla famiglia Maldini nel giorno dei funerali di Cesare. Il commissario tecnico della nazionale ucraina si ferma ai microfoni e firma un elogio funebre meraviglioso per il grande capitano. In 15 secondi Andry Shevcenko dice qualche parola di circostanza, arriva fino a dire “è un grande, è un grande allenatore, un papà per tutti” e poi singhiozza commosso e se ne va chiedendo scusa.

Sheva, per un breve periodo successivo all’esonero di Alberto Zaccheroni, è stato allenato da Cesare Maldini che dal 14 marzo al 17 giugno del 2001 è stato direttore tecnico affiancando l’allenatore ad interim Mauro Tassotti. Si, non vi siete sbagliati. L’ 11 maggio 2001 è una data compresa tra le altre due, la data della più bella vittoria del Milan in un derby. Eccolo il ricordo rossonero più recente della vita di Cesare Maldini: “Va Serginho, Shevchenko chiede palla sulla parte opposta, va fino in fondo Serginho, lo serve, Andriiiii Shevchenkooooo. 4 a 0. Cappotto” nella telecronaca di Fabio Caressa che ho imparato a memoria per avere visto la videocassetta di quella partita 65 volte.

Grazie di tutto Cesare, anche per quella serata di maggio.

Pier

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La prima volta che sono entrato a San Siro il Milan vinceva il suo decimo scudetto. Ai miei occhi di bambino con la mano nella mano di suo nonno quello era il paradiso. Migliaia di persone in delirio, i colori accesi di una maglia meravigliosa e di un campo verde come gli smeraldi. I miei occhi sulla curva e quello striscione "Fossa dei leoni" che diceva al mondo come noi eravamo diversi dagli altri, leoni in un mondo di pecore. Da allora ogni volta, fosse allo stadio, con la radiolina incollata all'orecchio o davanti alla televisione la magia è stata sempre la stessa.