A Torino il Milan non ha sfigurato. È capitolato per una prodezza individuale – di Dybala – più l’errore di un singolo – di Romagnoli – per quanto “comprensibile”. In che senso? Nel senso che il capitano rossonero ha fatto quel che poteva fare: nell’uno contro uno con di fronte uno degli attaccanti più forti e guizzanti del campionato si è fatto sì saltare, ma concedendo alla punta bianconera il destro, il piede debole, non rischiando un intervento potenzialmente da rigore più rosso. Ha sbagliato, certo, ma non si tratta di un errore marchiano, di posizionamento o di fondamentali, per così dire. Dybala ha fatto il Dybala, Romagnoli ha scelto quello che a suo avviso poteva essere il “male minore”. Uno sbaglio comprensibile, da insufficienza, certamente letale, ma non da “mezza sega”, per così dire. Il Milan non ha sfigurato, dicevamo. Ha utilizzato bene il campo in ampiezza, specie nel primo tempo, sfruttando al meglio delle proprie possibilità le caratteristiche dei propri giocatori. Una buona prestazione di Bennacer in costruzione e di Krunic in interdizione, discreto Paquetà in contenimento e proposizione, benino Conti contro due clienti come Ronaldo e Alex Sandro, per quanto in condizioni rivedibili. Una conferma, infine, da Theo, finora indubbiamente il miglior elemento rossonero. Chi è mancato? Calhanoglu, tornato sui livelli di qualche settimana fa, e soprattutto Piatek, le cui polveri sono ancora fradice. Buone notizie, dunque? Secondo una prima lettura si potrebbe dire di sì.
Una seconda interpretazione, forse giudicabile come pretestuosa, è però questa: il Milan ha confermato un trend da medio-piccola, da Lecce, con tutto il rispetto per la squadra della mia terra. Ha mostrato una capacità di farsi valere come spesso riescono a fare le compagini di provincia quando calcano i terreni di gioco prestigiosi della Serie A. Ordine, idee chiare, buona verve, ma poco di più. Non molto coraggio, ancora meno guizzi, iniziative sterili e soprattutto killer instinct sotto i tacchetti. La sensazione, o almeno una delle possibili nello spettro interpretativo, è che la partita dello Stadium non sia figlia di una crescita in sé coerente e continua, quanto di un anelito d’orgoglio fine a se stesso. La mia non è voglia di vedere tutto nero, negativo e irrimediabile, quanto banale disillusione. Troppe volte in questi anni abbiamo applaudito a prestazioni simili, accompagnate da commenti tipo “ah, giocassimo sempre così”, “quando vogliono sanno farsi valere”, “siamo sulla buona strada”. Un po’ come quando si vinse proprio contro i bianconeri grazie alla rete di Locatelli a San Siro per poi perdere pochi giorni dopo 3-0 contro il Genoa al Ferraris. Non facciamoci “fregare”, insomma, o almeno non illudiamoci.
Si avvicina la stagione invernale, e con essa i possibili colpi di mercato che animeranno le discussioni tra tifosi, quelli milanisti inclusi. Prima di tutto una considerazione più generale: da quando il Milan ha cambiato proprietà si è dato ampio spazio certo ai colpi di mercato (o almeno nelle primissime sessioni, quelle ancora non influenzate dai giudizi della UEFA), ma anche e soprattutto al “mercato dei dirigenti”. Nuovi CEO, nuovi direttori di questo o quel dipartimento, nuove strategie di marketing e comunicazione. Tutto bello, giusto e certamente in qualche modo a noi pressoché sconosciuto anche produttivo. Non va dimenticato tuttavia un fattore fondamentale, che troppo spesso si sottovaluta: è la bontà del prodotto che valorizza il marchio. È e sarà sempre così. La dolcezza accondiscendente della Nutella ha reso grande la Ferrero, non viceversa. Il cioccolato Kinder piace, il marchio Kinder funziona. Stesso dicasi per iPhone ed Apple, i cartoni e la Disney, i tortellini e Giovanni Rana. Non che il marketing non sia importante, anzi, ma se la base – il prodotto – è pessima, non è che ci sia molto da fare. Allo stesso modo funziona anche nel calcio: guardate il Liverpool, che ha nel gioco bello e vincente di Klopp la miglior strategia di marketing possibile. È così che i Reds hanno potuto siglare con Nike un contratto molto più vantaggioso di quello che in precedenza avevano con New Balance. Non ho alle spalle studi economici e non è mia intenzione fare il fenomeno, è semplice osservazione di ciò che funziona. Tutto ciò serve a dire cosa? Che la risoluzione della nostra situazione economica non può che passare da un miglioramento di quella sportiva, e non viceversa, come a volte qualcuno vuole sostenere. È un errore che nell’ambiente Inter della prima Suning è stato già fatto: manager di qua e di là, ma di fatto la vera crescita è arrivata con Spalletti e Champions League prima e Conte, Marotta e -1 dalla Juve poi.
I colpi Rakitic e Ibrahimovic (o chi per essi) possono dunque essere un palliativo momentaneo, tanto sportivamente quanto a livelli di introiti, ma solo un progetto serio e soprattutto fondato sulla competenza può essere davvero complessivamente fruttifero. E questo, purtroppo o per fortuna, passa da una crescita lenta, ma continua, non immediata. Le scorciatoie non esistono, come si è visto proprio con il solito Liverpool, che non a caso è tornato sul tetto d’Europa prima che potessero arrivarci City o PSG. Questo è il motivo per cui scelte come quella di Giampaolo sono concettualmente e logicamente sbagliate, tralasciando l’irrazionalità che mi aveva portato a sostenere che ci saremmo divertiti (sic…). Se devi arrivare almeno quarto, prendi chi lo sa fare e l’ha già fatto. Se vuoi continuità di prestazione, prendi chi la garantisce. Se vuoi far crescere i giovani, prendi giocatori con potenziale e chi li può guidare ed esaltare. Insomma, calciatori d’esperienza potrebbero servire, certo, ma se affianchi loro Castillejo, Piatek, Calhanoglu e Kessiè serve davvero a qualcosa? Su questo bisognerebbe riflettere lucidamente, e molto.
Fab
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