Dieci e 13 novembre: le due date del dramma. Sportivo, certo, ma pur sempre un dramma. I più esagerati le definirebbero “le date della vergogna”, del più grande fallimento calcistico della storia della Nazionale di calcio italiana. Superiore alla Corea del Nord nel 1966, della Corea del Sud nel 2002, di Sudafrica 2010, Brasile 2014. Un’onta difficile da dimenticare, se non impossibile, che segnerà vita natural durante – com’è normale che sia in un paese calciofilo come il nostro – i protagonisti di quelle due maledette serate. In quei due giorni personalmente non avvertii la portata di ciò che stava avvenendo, e soprattutto delle conseguenze che avrei e avremmo dovuto patire in questi giorni. Con sette mesi di ritardo, il conto è stato servito.
“Un Mondiale senza l’Italia potrei anche sopportarlo, e poi, alla fine, di certo non avremmo potuto vincere. Anzi, forse saremmo usciti ancora una volta al primo turno”. Ripetersi queste frase è stato l’esercizio più praticato dagli italiani nell’immediato post eliminazione, quasi a voler minimizzare la cocente delusione, quasi a trovare motivi per cui non disperarsi. Oggi, 15 giugno (16 per chi legge), a Mondiali iniziati, la realtà è però un’altra. La realtà, a costo di essere banale e di ripetere i soliti concetti triti e ritriti, è che l’estate dei Mondiali è magica. Un po’ perché ci fa rivivere ricordi di giovinezza, perché ci permette di allontanare i soliti pensieri negativi e disfunzionali di ogni giornata di lavoro, un po’ perché, sotto sotto, speriamo di vivere un’altra Madrid o un’altra Berlino.
Credo che il motivo sia piuttosto un altro, però. Parlo personalmente, ma ho la presunzione di farlo anche per tanta altra gente. Magari non la maggioranza, ma comunque una buona fetta di italiani. L’estate del Mondiale, o comunque della Nazionale (comprendendo in questo senso anche gli Europei) è magica perché ci raccogliamo attorno a qualcosa. Perché troviamo nelle altre persone quelle “little things we have in common“, per citare George Carlin. Certo, sarebbe meglio raccogliersi per qualcosa di davvero alto, per promuovere cambiamenti, comportamenti, novità e solidarietà che possano davvero fare la differenza per il nostro futuro, ma è sempre meglio che ciò avvenga, piuttosto che perdere l’opportunità di condividere qualcosa insieme, di sperare per una volta tutti – o quasi – nella stessa cosa.
Tutta questa pappardella per dire che mi manca il Mondiale. Mi manca sapere che milioni di altri miei connazionali, nello stesso momento in cui lo faccio io, stanno cantando l’inno di Mameli. Mi manca offendere i parenti degli arbitri che non ci fischiano un fallo o quelli dei nostri avversari. Mi manca pensare che i portieri diventano fenomeni solo contro l’Italia. Mi mancano i caroselli già dopo aver superato gli ottavi di finale (ammesso che si riesca a farlo). Mi mancano le polemiche alimentate dai giornalisti e i giornalisti che prima della solita partita decisiva dicono con ostentata e falsa maturità “mettiamo da parte le polemiche”. Mi manca odiare insieme a tutti voi i francesi, i tedeschi, gli spagnoli, gli olandesi, i belgi, i brasiliani, gli australiani o qualsiasi altro popolo che siamo costretti ad affrontare. Mi manca sentirmi più italiano, nell’anno ogni quattro (o due) in cui essere italiani è l’insieme di tanti luoghi comuni, spesso falsi. Ma non me n’è mai fregato nulla, e mai me ne fregherà. Mi piace, tanto mi basta.
Il Mondiale mi manca, insomma. Lo guarderò, tiferò, mi appassionerò comunque, ma mi manca vedere l’azzurro tra il verde dei prati di Russia. Passerà…
Fab
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