Avevo già impostato il post da qualche giorno, ma Sinisa mi ha fregato. Con lui se ne va un giocatore, un allenatore ma soprattutto un uomo senza peli sulla lingua in un mondo del calcio sempre più “falso”. Ci lascia con i suoi pregi, difetti e anche eccessi. Con noi sei stato poco, forse incompreso da molti, ma per me resterai rossonero. Ciao Sinisa.
17 dicembre 1989 un ragazzino di 15 anni si sveglia nella notte assieme al suo papà per assistere ad una partita diversa per la prima volta nella sua vita. In quel periodo così magico non mi perdevo una partita del Milan e dovermi svegliare nel cuore della notte per vedere il mio Milan non è stato sicuramente un peso. Un periodo di prime volte, purtroppo avevo già visto per due volte la serie B e vissute molte prese in giro dei miei compagni di scuola perché avevo il sangue rossonero, Ma dal 1 maggio 1988 è stata tutta un susseguirsi di prime volte e che prime volte. Il mio primo scudetto, l’esordio in Coppa Campioni, la prima finale Europea di Barcellona, la prima Supercoppa Europea e appunto la prima volta di una finale della Coppa Intercontinentale, una coppa per le sue fattezze mi ha sempre affascinato, vedere questo piedistallo con il pallone sopra nelle e mani di Rivera mi ha sempre fatto un effetto di piacere.
Io che mi sono sempre nutrito dei ricordi di mio padre su quel magnifico trofeo, raccontandomi la battaglia della Bombonera, dove undici eroi in maglia bianca ma con il cuore rossonero rischiarono nel vero senso della parola la vita per portare a Milano quel trofeo.
Sono trascorsi esattamente vent’anni da quell’inferno argentino, perché la partita Milan – Medellin è anche figlia di quella autentica aggressione in campo e fuori. Da quella sera iniziarono a pensare che forse bisognava cambiare il regolamento, anche perché negli anni successivi molte squadre europee si rifiutavano di andare a giocare in Sud America per paura.
Quel 17 dicembre 1989 invece, è tutto diverso non siamo più in nell’America meridionale perché la Coppa Intercontinentale si è trasformata in gara unica da giocare a Tokyo, la Toyota ha capito prima di tutti il business e ha messo il suo marchio sul trofeo e dal 1980 si gioca in una finale secca nella capitale nipponica.
Qualche anno prima, nel 1985, quando il Milan si stava lentamente rialzando dalle sue ceneri avevo visto con un pizzico d’invidia Platini e compagni alzare quel meraviglioso trofeo, e in quel momento mi stavo immaginando le battute scherzose dei miei compagni bianconeri, loro campioni del mondo e noi eliminati dalla Coppa Uefa dai modesti belgi del Waregem, perché in quegli anni essere rossoneri era una scelta coraggiosa.
Ma ritorniamo a quella notte buia del 17 dicembre, sono emozionato perché all’epoca vedere una partita era un autentico evento, e ho lasciato a riposo la mia immancabile fedele compagna dei successi rossoneri di fine anni 80: La radio. La novità che balzò subito agli occhi, anzi alle orecchie è il suono di quelle fastidiose trombette dello stadio Olimpico, all’inizio non capivo se era il mio tubo catodico che aveva problemi o se era qualcosa che proveniva da fuori, poi con il tempo scoprii che i problemi li avevano i giapponesi, e quel famoso suono divenne la colonna sonora di quell’evento negli anni seguenti.
Sono emozionato, non so cosa aspettarmi, ho ancora negli occhi l’incredibile partita di Barcellona, ma temo questi sconosciuti giocatori colombiani. In porta c’è un giocatore bizzarro, dai capelli lunghi, si chiama Renè Higuita ed è il precursore, per la verità un po’ sopra le righe, di un nuovo modo di fare il portiere, partecipando alla manovra. L’anno dopo al Mondiale italiano combinerà una frittata che costerà l’eliminazione alla sua Colombia, mentre quattro anni dopo salterà il Mondiale americano: viene arrestato con l’accusa di essere vicino al re del narcotraffico Escobar. Un personaggio al quanto curioso.
Con gli occhi ancora un po’ assonati, a prima vista mi sembra Gullit ma, purtroppo il nostro tulipano nero in quella finale non è presente per via dei problemi alla cartilagine del ginocchio che gli faranno saltare praticamente tutta la stagione.
La formazione è più o meno quella titolare: Giovanni Galli in porta, Tassotti, Maldini, Fuser, Costacurta, Capitan Baresi, Donadoni, Rijkaard, Van Basten, Ancelotti e Massaro. Ci siamo, l’emozione sale, oramai non sento nemmeno più le trombette giapponesi, vent’anni dopo papà sono anch’io protagonista di una finale mondiale.
Il Milan di Sacchi, che non doveva mangiare il panettone due anni prima, invece ha vinto Scudetto, Coppa dei Campioni e Supercoppa Europea, e per completare questo meraviglioso poker gli manca solo questa partita. Altro che triplete dei cugini.
La gara di per se è abbastanza bruttina, assomiglia ad una partita a scacchi, in tanti definiscono questo tipo di partite perfette. Il mio entusiasmo e trepidazione iniziale durante la partita si è trasformata in noia. Dopo 90 minuti siamo ancora 0-0 e si va ai supplementari. Oramai la notte si è trasformata in alba, mancano più o meno un paio di minuti e poi ci saranno i rigori. Io oramai non c’è la faccio più a gestire la tensione, non riesco più a stare seduto, sono in piedi davanti alla tv sempre tutto vestito di rossonero. Devo avere la mia rivincita con i compagni gobbi. A tre minuti dai rigori, Van Basten viene falciato al limite dell’area, pochi centimetri prima che possa essere decretato il rigore. E forse è meglio così: ci saremmo persi la punizione del timido Evani. Provo a rivivere quel momento attraverso i ricordi, cerco di focalizzare il momento. Sul pallone vanno Donadoni ed Evani. Racconterà poi quest’ultimo: «Ho visto che la barriera copriva lo spazio dove avrebbe sicuramente tirato Donadoni, così ho detto a Roby di spostarsi, che avrei provato io. E mi è andata bene». La palla, colpita perfettamente di sinistro, aggira la barriera e si spegne beffarda nell’angolino basso alla destra di Higuita, immobile che ha avuto la presunzione di sistemare la sua barriera rimanendo al centro della porta.
Adriano Galliani, immerso nel suo cappotto nero, si ritrova improvvisamente in campo a braccia alzate. È il gol che decide la partita e scalda la notte invernale di migliaia di rossoneri in Italia. E soprattutto scalda il mio che con urlo liberatorio salto in braccio a mio papà urlando tutta la mia gioia.
Una tripudio di emozioni mi stanno scaldando in quella fredda notte invernale di dicembre, scendo dalle braccia di papà e guardo Chicco Evani correre felice per il campo inseguito dai suoi compagni. Si Chicco quella notte siamo saliti sul tetto del mondo assieme anche a Mauro e a Franco e guardavamo tutti dall’alto, compresi i miei adorati amici gobbi. Si perché assieme, in modo diverso abbiamo passato anni difficili, le annate in serie B, gli anni del piccolo diavolo con la paura che il mio Milan non esistesse più. Insieme abbiamo sofferto ma ora eravamo Campioni del mondo. In sette anni siamo risorti, dalla retrocessione di Cesena alla notte giapponese. Mamma mia che emozioni.
Da quella sera sei per tutti “Chicco San”, il samurai rossonero che ha spezzato il Medellin e messo il Milan in cima al mondo, dopo vent’anni.
L’anno seguente un crepuscolare Milan di Sacchi concederà il bis battendo 3-0 i modesti paraguayani dell’Olimpia Asuncion, in quella partita Ruud c’è, ma sarà la stella di Marco Van Basten a brillare senza segnare. Caro Milan quante ne abbiamo vissute e con un giorno di ritardo ti faccio tanti auguri di Buon Compleanno, 123 anni e li porti alla grande.
FVCRN
Harlock
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