Data storica – 10 febbraio 1999. Mercoledì. Ore 18,00. L’arbitro Bolognino della sezione di Milano fischia il calcio d’avvio della partita. Gli spettatori che hanno deciso di sacrificare il loro tempo libero sull’altare del Milan sono ben 7.820 nonostante, trattandosi di partita amichevole, il prezzo del biglietto sia simbolico; l’euro è entrato in vigore pochi giorni prima e mi pare di averne dato uno o due alla biglietteria. Potrei sbagliarmi perché l’unica cosa che ricordo di quella serata è il freddo che gela campo, tribune e spettatori. La colonnina di mercurio dice tre; si, ma sotto lo zero. Fuori dallo stadio danno dei certificati di pazzia, devo averlo ancora a casa da qualche parte. Io e tre amici scegliamo di guardare la partita dal primo anello arancio, posto dal quale, avendo consumato quasi tutte le mie quasi cinquecento partite al secondo anello blu, non capisco niente di quello che sta succedendo. Appunto, cosa sta succedendo? Il Milan gioca un’amichevole che fa parte del contratto di acquisto di un giocatore e siamo venuti a vedere come gioca. L’avversario è la Dinamo Kiev e il futuro milanista è Andrij Mykolajovyc Sevcenko. Grafia e pronuncia relativamente complesse, per tutti: Sheva.
Note a margine – Quella partita è uno snodo importante nella storia del Milan, a dispetto del contenuto tecnico. E del freddo. Per la cronaca, il Milan perde 2 a 1 con gol di Alessandro Iannuzzi grande promessa delle giovanili della Lazio (mai mantenuta per una lunga serie di infortuni) che era stato compagno di squadra nella primavera biancazzurra campione d’Italia dei vari Nesta, Roma e Di Vaio. Per la Dinamo segnano Katskevitch e l’attuale sindaco della capitale della Georgia, Tbilisi: Kakhaber Kaladze. La dirigenza ucraina ha fatto un capolavoro con la cessione dell’Usignolo di Kiev, roba che sarebbe da imparare oggi, figurarsi venti anni fa. Il corrispettivo è di circa quaranta miliardi delle vecchie lire “estorti” a Galliani e Braida dopo una trattativa lunga come una quaresima insieme a due amichevoli da tenersi a San Siro (una nel 1999 ed una nel 2000) ed il dieci per cento della futura rivendita del giocatore. Prego, aggiungere altro quattro milioni e mezzo di euro. Nelle due amichevoli si mette in luce il futuro sindaco che passa al Milan per la modica cifra di sedici milioni di euro. Quarantasei milioni di euro, applausi. Seduto sulla panchina dei campioni di Ucraina c’è un colonnello dell’Armata Rossa di nome Valerij Vasyl’ovyč Lobanovs’kyj (ma come cappero scrivono!!!!) che ha scritto la storia del calcio sovietico ed europeo. Se andate a vedere lalbo d’oro delle coppe europee scoprite che le squadre dell’est Europa hanno vinto, tutte insieme, 14 titoli continentali. La Spagna, per dare un’idea, ne ha vinti 62; l’Italia 44. Di quei quattrodici ben tre hanno la sua firma in calce. Per la cronaca, dopo la partita siamo andati a bere qualcosa in un locale all’epoca famoso a Milano: quattro mojito e quattro cioccolate calde che con le crocchette di patate c’entrano il giusto ma scongelano il corpo e l’anima.
Il ragazzo venuto dal freddo – Giugno 1999. I rossoneri festeggiano il loro centenario con lo scudetto più improbabile della loro storia e l’arrivo del ragazzo venuto dal freddo. Strappiamo idealmente una pagina da un episodio delle “Storie Mondiali” di Federico Buffa perché a) è il maestro, b) questa storia l’ho sentita anche da altre fonti e quindi potrebbe essere vera. Milanello, primo allenamento. Dopo tre ore di corse nella pineta Sheva si gira verso Costacurta e chiede: “Ma quando cominciano gli allenamenti?”. Non c’è spocchia nelle sue parole, solo genuina sorpresa. Fino a quel giorno per “Andreino” gli allenamenti sono stati quelli del Colonnello e quella è una passeggiata di salute per lui. Attenzione: lo chiamavano Colonnello perché quello era il suo grado nell’esercito sovietico e perché aveva portato nelle sue squadre i metodi degli “spetnaz”, le forze speciali russe. Passa all’esercizio successivo o alla categoria superiore solo chi non vomita. Ce n’è uno che non ha mai vomitato, indovinate chi…
Prendete un hockeista con tutte le durezze fisiche e mentali del caso, dategli il talento per giocare a calcio e fatelo allenare dal Colonnello che gli darà la tecnica, la forza fisica e la mentalità; otterrete Andrij Shevchenko. 175 reti in 8 stagioni, 1 scudetto, 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa Italiana, 1 Champions League, 1 Supercoppa Europea, 2 volte capocannoniere in Italia e 1 volta in Champions League, 1 pallone d’oro; solo per ricordare i titoli vinti con il Milan. In patria, per citarne una, ha ricevuto la medaglia di Eroe dell’Ucraina, la più alta onorificenza statale.
L’uomo, non i numeri – È una costante di questi ritratti, andiamo a cercare l’uomo perché i numeri sono reperibili facilmente su internet. E l’uomo in questo caso ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente. Situazione particolare quella volta, io lavoro per una azienda che fa servizi e sono a sua disposizione. Il ragazzo ha già vinto il pallone d’oro, è ricco, famoso, frequenta casa di Silvio Berlusconi. On top of the world come dicono gli americani, potrebbe trattarmi da “subalterno”. Ma non lo fa, viene fuori tutto il soldatino sovietico che c’è in lui anche a costo di essere buffo. Il contesto è rossonero, non posso non sapere chi è ma Sheva si presenta: “Buongiorno, sono Andrij Shevchenko…”. Lo so, sono un cretino e non riesco a trattenermi: “Devo averti già visto da qualche parte…”. Lui mi guarda perplesso ma non abbandona la sua educazione: “Mi scusi, io avrei bisogno di…”. Mi spiega quello che gli serve, prendo disciplinatamente nota e poi gli sorrido: “Perfetto. Però, per favore, dammi del tu. Se no quando sarò allo stadio mi verrà difficile mandarti a quel paese se sbagli un gol…”. Ha un braccio e due spalle che se mi da un cazzotto ci resto secco ma anche un bello spirito: “Ok, Grazie. Ciao!” Wow, mi ha detto ciao ma mi aveva conquistato già al buongiorno. Dopo dieci minuti squilla il telefono: “Buongiorno, sono Andrji Shevchenko e sto chiamando per…”. Ancora?: “Ciao Andrij, sono quello di prima…”. Silenzio. Sorriso. “Ciao, hai trovato quello che cercavo?”. Ma quanto sei figo? Di gol ne ha sbagliati proprio pochi e di vaffa non ne ha presi molti.
L’ultimo idolo – Sono nato nel 1970 e cresciuto nel mito di Franco Baresi che, pochi mesi prima dell’arrivo del ragazzo di Kiev, precisamente nell’ottobre del 1997, ha abbandonato il calcio giocato con una partita d’addio indimenticabile. Quella sera ho capito che non avrei potuto più avere un idolo, sostituire il Franz era impossibile e se non ci era riuscito Maldini… Quel ragazzo ucraino però aveva le caratteristiche tecniche (da fuoriclasse assoluto) e umane (da piccolo casciavit in salsa sovietica) per occupare un posto importante nel mio cuore. Non al posto del Piscinin, ma comunque lì vicino. Non ho mai perdonato al Giannino la cessione di Sheva l’ultimo dei miei idoli anche, e soprattutto, per quella sua sovrumana capacità di punire i nati dopo e nati male. Quattordici volte per la precisione. Oppure per la capacità di segnare gol importanti negli appuntamenti importanti. A memoria: tripletta in Supercoppa Italiana contro la Lazio, gol decisivo nella finale di Supercoppa Europea contro il Porto, il gol decisivo per lo scudetto del 2004, il rigore decisivo contro i gobbacci a Manchester.
Sempre undici contro undici – Fa un caldo tremendo, En Niño sta inginocchiando tutta Italia con temperature folli. Siamo a casa mia e soffriamo fino ai calci di rigore perché, pur avendo meritato di vincere la finale, siamo in dieci a causa dell’infortunio di Roque Junior. L’arbitro fischia la fine dei tempi supplementari e io mi alzo per stringere le mani agli amici presenti. Mi guardano straniti e quindi spiego: “E’ stato un onore affrontare questa stagione con voi. Se perdiamo contro questa feccia, non posso garantire che mi occuperò ancora di calcio.” Se ne vanno i primi quattro rigori e tocca all’Usignolo di Kiev che va sul dischetto e guarda prima il portiere e poi l’arbitro. Poi il portiere ed ancora l’arbitro. Il mio cuore perde un battito e penso che ha gli occhi di un cerbiatto in autostrada abbagliato dai fari di una macchina. Smetto di respirare mentre prende la rincorsa e calcia quella palla alle spalle del portiere gobbo e molto alle spalle (a buon intenditor…) di un popolo che da quella sera sarà nostro vassallo. E io urlo. Urlo, urlo e urlo ancora pazzo di una gioia che oggi, a quindici anni di distanza, rimane invariata. Non aveva paura Sheva quella sera, aveva solo fretta, quella sana che lo avrebbe portato a vincere il pallone d’oro. Andrij segna ancora molto dopo quella sera ma nessun gol è mai stato così bello, così significativo. Gli ho permesso e perdonato di tutto (ammesso e non concesso che qualcosa da perdonare ci fosse) e quando è tornato in prestito dal Chelsea a carriera praticamente finita ho guardato tutte le sue partite, tutte senza gol tranne due, con la speranza che segnasse. Non per il Milan, per lui. Per lui e per me, perché la nostra amicizia potesse continuare, per poter cantare ancora una volta:
Non è brasiliano però
Che gol che fà
Il fenomeno lascialo là
Qui c’è Sheva
Pier
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