Ritratti – Jose Juan Altafini

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Il quarto d’ora granata – Nelle nostre peregrinazioni alla ricerca delle storie dei grandi milanisti del passato abbiamo già incontrato, direttamente o indirettamente, i dominatori del calcio negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Schiaffino, Di Stefano e Puskas ma anche Liedholm, Nordhal, Kopa e Gento. Quasi tutti concentrati nel Milan e nel Real Madrid. Manca un nome, quello che, a detta di molti, era addirittura il più grande di tutti: Valentino Mazzola. Lombardo di Cassano d’Adda, cresce calcisticamente nel Venezia e raggiunge la gloria nel Torino costruito da Ferruccio Novo. La descrizione tecnica di Valentino è semplicemente ridicola: mezzala (ma anche attaccante) dotato di grande forza fisica (e di tecnica sopraffina), ha un gran tiro, visione di gioco, dribbling, colpo di testa, velocità e resistenza. Ha un grande tackle, recupera palloni in ogni zona del campo, imposte le azioni e spesso le va a concludere. Ridicola nel senso che chi lo ha visto giocare testimonia che, in realtà, era anche più forte. Buonanotte… Come se non bastasse quelli che giocano con lui sono più o meno sullo stesso livello ed ecco per sei anni in Italia si gioca solo per il secondo posto. Per dare un’idea, i giocatori del “Grande Torino” spesso in campo “cazzeggiano”. Sì, avete letto bene. Capita nelle partite in cui sanno di essere nettamente superiori. Per una sessantina di minuti “cazzeggiano” sullo zero a zero in attesa di tre squilli di tromba che arrivano dagli spalti del Filadelfia. Valentino si rimbocca le maniche e il Toro gioca un calcio divino per quindici minuti seppellendo gli avversari di gol.

Rendiamo omaggio anche al Grande Torino

Solo il fato li vinse – “Capitano, non si vede niente…” “Dai, coraggio, ancora poco e arriviamo alla pista…” “Capitano, io non vedo le luci dell’aerop…”. Sono le 17,05 del 4 maggio del 1949 ed il destino presenta il conto ad una squadra che non poteva essere sconfitta se non da una nebbia fittissima (il 4 maggio!?!?!?) e dai bastioni della collina di Soperga. Il Torino sta rientrando da una amichevole a Lisbona che costerà la vita a tutti i presenti su quel maledetto volo e, probabilmente, il mondiale numero tre all’Italia. Già, perché nel 1947 la nazionale (il Grande Torino più il portiere della juve) ha già affrontato l’Ungheria di Puskas ed ha vinto 3 a 2. Ma per quale motivo i granata stanno tornando da un’amichevole a Lisbona? Perché sono una squadra richiesta in tutto il mondo per la sua forza e la sua spettacolarità. Tanto è vero che nel 1948 vanno in Brasile per una tournee. E il paese carioca dove il calcio è, come in tutto il Sud America, autoreferenziale, autoctono e nazionalista, va giù di testa. Così tanto che Jose Juan Altafini, figlio di italiani emigrati in Brasile, si becca, in virtù di una certa somiglianza fisica, il soprannome di Mazola (con una sola zeta) che finisce anche sulla maglia della Selecao. E’ la casacca con cui gioca in Italia alcune amichevoli di preparazione ai mondiali di Svezia facendo breccia nei cuori dei dirigenti rossoneri.

Una lettera di differenza – Da Mazzola a “Mazola” c’è un abisso perchè calcisticamente i due non c’entrano nulla; Jose è una punta pura mentre l’altro è un “tuttocampista”. Di simile hanno forse la forza fisica dato che Jose è bello grosso ma la sua dote migliore è che la butta dentro con una continuità mostruosa. Anche a Svezia ‘58 dove si laurea campione del mondo insieme al diciassettenne Edson Arantes do Nascimiento. Altafini arriva a Milano da trionfatore. Ha vent’anni, è belloccio, famoso e con dei soldi in tasca. I calciatori dell’epoca non prendevano quello che prendono i loro colleghi odierni ma poveri non erano nemmeno allora. Voi al posto suo non avreste fatto la bella vita? Alla sera i dirigenti del Milan devono andare a cercarlo nei locali della città fino a quando lo pesca Gipo Viani che alla distribuzione dell’umorismo ha trovato la coda ed ha deciso di non prenderne nemmeno un po’. “Mazola” lo vede ed usa la sua prestanza fisica per saltare dietro ad un divanetto. “Coniglio” è la sentenza del Direttore Tecnico dei rossoneri ed è Cassazione. Tra i due smetterà di correre buon sangue nonostante le caterve di gol che Jose mette in porta. Vero che giocare con Liedholm, Grillo e schiaffino ti semplifica le cose ma lui è una macchina. Per i soli parziali, il primo anno sono trentaquattro di cui ventotto in campionato. Scudetto.

La partita della vita – I tifosi lo adorano. Ha raccolto la difficile eredità del Pompierone Nordhal del quale ha meno forza fisica (ovviamente) ma più tecnica. Segnare è una vocazione, un’impellente necessità fisica ed i primi quattro anni sono 28, 20, 22 e 22. Centootto contando le reti di tutte le competizioni. E poi ha la stessa malattia di Shevcenko, fare gol all’Inter. La stagione ‘62/’63 segna una flessione del numero dei gol in campionato; Viani continua la sua crociata (“E’ un coniglio”) ma Nereo Rocco, che nel frattempo è diventato allenatore del Milan, lo difende a spada tratta (“Monàde”, stupidate in triestino). In compenso, “Mazola” devasta le reti d’Europa portando di peso i suoi fino alla finale di Wembley contro il Benfica di un’altra stella di fama mondiale, Eusebio. Loro sono fortissimi: dal portiere Costa Pereira al trio offensivo Jose Augusto, Torres, Simoes passando per la “perla del Mozambico” Eusebio. Infatti andiamo sotto proprio per un gol della “Pantera Nera” al diciottesimo minuto. Giochiamo male e nello spogliatoio Rocco deve aprire la borsa dei trucchi. Ce n’è per tutti, compreso Jose: “Ciò, ha ragione Viani. Sei un coniglio”.

Secondo tempo – Loro sono forti, noi di più. L’altro allenatore del Milan, Cesare Maldini, sistema le marcature; Trapattoni prende la gomma e cancella Eusebio dal campo; Dino Sani disegna calcio e Gianni Rivera… beh, è Gianni Rivera. È suo il tiro respinto dal portiere che Altafini ribatte in rete come suo è l’assist per il 2 a 1 di Jose. Il “coniglio”, trasformato dalla sfuriata di Rocco, trascina la squadra e segna le reti numero tredici e quattordici della sua Coppa dei Campioni. Serviranno cinquanta anni ed un Ronaldo, Cristiano, per fare di meglio con diciassette marcature. Roba da fenomeni.
Torniamo al nostro bomber. Quella stagione Jose segna trentuno gol, è la sua seconda stagione più prolifica e permette al capitano Cesare Maldini di sollevare, primo italiano, la Coppa dei Campioni. Però, proprio in quella stagione inizia il suo secondo tempo. Il rapporto con il Milan si guasta ed il presidente Riva tarda a rinnovargli il contratto. Mazola si innervosisce, il suo procuratore anche. Già, perché primo tra tutti Altafini ha il procuratore. A lui il contorno del calcio interessa poco e si fa rappresentare da suo zio. Nella stagione ‘64/’65 il patatrac. Il Milan viene affidato a Nils Liedholm e vola nonostante Altafini segni pochissimo. Riva tentenna e Jose scappa in Brasile. Viani gongola e non c’è Rocco a proteggerlo. Linea dura fino a quando il ragazzo si fa prendere dalla “nustalgia” del panettone e, proprio sotto Natale, spedisce una cartolina di auguri al presidente. Viani si incazza ma lo fanno rientrare e lo reintegrano in rosa. È un disastro. Il Milan si pianta e, nonostante i nove punti di vantaggio, perde lo scudetto. Indovinate a chi va la colpa?

Core ‘ngrato – Viene messo sul mercato dopo duecentoquarantacinque partite e centosessantuno reti. Meglio di lui solo Nordhal (221), Shevcenko (175) e Rivera (164). È uno dei cinquanta migliori di sempre nella storia del Milan e probabilmente uno dei cinque migliori centravanti della nostra storia costellata di fenomenali numeri “9”. Con la valigia piena di vestiti e rammarico Jose prende la strada di Napoli ma, rubando le parole a Evita Peròn, “don’t cry for me Argentina”. Mazola è pieno di vita e risorse. E di vite se ne fa almeno altre tre. La prima come stella del Napoli (altri 97 gol in 234 partite) in coppia con Omar Sivori; “Facciamo un patto: “Omar, tu sei il re della città e io sono contento, basta che mi fai fare due gol a partita”. Ha funzionato ma anche questa finisce così e così quando saluta tutti per andare a Torino nonostante i trentaquattro anni. Vita numero quattro: non potendo più fare una stagione intera da titolare si inventa il ruolo di primo cambio e regala alla gobba trentasette gol il centodiciannove scampoli di partita e due scudetti di cui uno in volata sul “suo” Napoli che gli vale, oltre al titolo di campione d’Italia, anche quello di core ‘ngrato cinquanta anni prima di Gonzalo Higuain. Vita numero cinque: commentatore televisivo, voce di videogiochi, speaker radiofonico e doppiatore di cartoni animati. E siccome non vogliamo farci mancare nulla c’è anche la vita numero sei, quella privata.

Scandalo rosa, scandalo azzurro – Nella squadra che vince la Coppa dei Campioni nel maggio del ’63 i compagni di reparto di Jose sono Mora e Pivatelli, il loro sostituto è Paolo Barison, detto il Bisonte per la sua forza fisica. Paolo oltre a quella ed un buon fiuto per il gol ha anche una moglie bellissima, Annamaria Galli. Già sapete… Jose va a Napoli, caldeggia l’ingaggio di Barison e scoppia lo scandalo in un paese che proprio in quegli anni sta affrontando il lacerante confronto sul divorzio. I due convoleranno a nozze ma solo dopo la morte dei rispettivi ex coniugi che nel caso del Bisonte avviene nel 1979 in un incidente stradale sull’Autostrada dei Fiori. Sarebbe finita se non fosse che ci sarebbe da affrontare il tema della nazionale o, meglio, delle nazionali. Perché Mazola diventa campione del mondo con il Brasile di Pelè e Garrincha mentre Altafini, essendo “oriundo”, viene chiamato a furor di popolo a difendere i colori azzurri nel mondiale del 1962. In una spedizione che, partita con mille speranze, tornò dal Sud America con una eliminazione brutta ed ingloriosa che varrà la chiusura definitiva agli oriundi nella storia del nostro calcio.
Ma una cosa facile, Jose? Una…

Pier

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La prima volta che sono entrato a San Siro il Milan vinceva il suo decimo scudetto. Ai miei occhi di bambino con la mano nella mano di suo nonno quello era il paradiso. Migliaia di persone in delirio, i colori accesi di una maglia meravigliosa e di un campo verde come gli smeraldi. I miei occhi sulla curva e quello striscione "Fossa dei leoni" che diceva al mondo come noi eravamo diversi dagli altri, leoni in un mondo di pecore. Da allora ogni volta, fosse allo stadio, con la radiolina incollata all'orecchio o davanti alla televisione la magia è stata sempre la stessa.