Così è se ci pare. E, se non ci pare, così è lo stesso…

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Paul Elliott Singer, azionista e fondatore del Fondo Elliott.

«Mi stupisco che lei si stupisca». Questa formula retorica, abusata in passato nelle tribune politiche vintage, mi è tornata alla mente osservando le reazioni dei tifosi del Milan nel giorno delle doppie dimissioni di Leonardo e Gennaro Gattuso e della proclamazione del «manifesto di Elliott», proclamato dall’Ad, Ivan Gazidis, che ha fatto quello che, come lui stesso ha tenuto a precisare, non hanno fatto tanti nel recente passato: dire le cose come stanno.

Può piacere o meno, ma la situazione del Milan è proprio quella descritta dall’ex dirigente dell’Arsenal. Ripeto, può piacere o meno. Ma è così. E’ drammaticamente, terribilmente così. E pensate che, tutto sommato, stiamo decisamente meglio oggi che negli ultimi 8 anni. Stiamo meglio, ma non possiamo immaginare nemmeno lontanamente di poter – attraverso il mercato .- rendere sensibilmente più competitiva questa squadra nell’immediato. Escludendo intuizioni clamorose o colpi di fortuna inattesi, si intende. Oggi i giocatori che ti fanno fare il salto di qualità costano dai 40-50 milioni (come minimo) in su. E, ammesso e non concesso che questi top players accettino l’eventuale rossonera, l’esborso sarebbe insostenibile, anche per i limiti che il rispetto dei parametri di bilancio impone. Quindi largo ai giovani, sperando di sceglierli bene e che diventino campioni con la nostra maglia. 

Però il tifoso non accetta questa realtà. Il tifoso milanista che assiste l’Inter annunciare l’ingaggio di Conte e che teme di vedere Guardiola in bianconero può anche essere il più importante degli accademici o il più geniale degli ingegneri nucleari, ma quando attiva la modalità tifoso entra in un mondo fatto di sogni e di irrazionalità. Ricorda quello che è stato, si sente in diritto di tornare a quel passato di trofei alzati, di trionfi, di fuoriclasse. Di storia. Come siano andate le cose dal 2009 in poi è cosa risaputa, ma si sa: la memoria tende a cancellare i ricordi negativi, impressionando invece quelli belli. E così, oggi siamo così. In mano a quello che è con tutta probabilità il più importante fondo di investimento al mondo con regole precise da rispettare nei confronti dei propri investitori e precisi (ma soprattutto concreti) obiettivi. Un fondo che non perde mai nemmeno dove i grandi della terra falliscono. Chiedere in Perù, Argentina e Congo, per maggiori dettagli. La sua presenza nel calcio è considerata anomala e, in effetti, per certi versi, lo è come ha spiegato lo stesso Gazidis proprio lunedì. Pensare che per un soggetto di quel calibro i sentimenti possano influenzare le scelte è come sperare che il lupo affamato abbia pietà dell’agnello zoppo. 

Quel Fondo, però, di buono ha che punta sempre a creare valore. E la storia dimostra che ci è praticamente sempre riuscito. Se poi le vittorie arriveranno presto – insieme a quel valore – tanto meglio. Ma è più probabile, razionalmente che ne potrebbero essere la conseguenza a lungo termine. In un lasso temporale che, oggi, non è prevedibile. Oggi le priorità sono altre, e sono state doviziosamente elencate. La priorità è mettere in sicurezza i conti, aumentare il fatturato, dare valore al brand con un posizionamento sul mercato di un certo tipo, con un impianto all’altezza (e magari di proprietà o gestito in proprio) innescare un volando di sviluppo – come si dice in politica economica – che possa portare il Milan, come società, all’altezza dei più importanti club europei. E magari a renderlo appetibile, per far sì che a qualcuno, in qualche parte del mondo, venga in mente che spendere centinaia e centinaia di milioni per il Milan non sarebbe poi un’idea così folle, ma addirittura un affare. 

Oggi, obiettivamente, non lo sarebbe ancora, su questo non ci piove. E che la priorità del risanamento fosse la piega presa dai nuovi azionisti di maggioranza lo si era capito già un anno fa circa, con la scelta di chiamare a Milano proprio Gazidis. All’epoca eravamo tutti eccitati. Forse perché avevamo ancora in mente gli ultimi anni del Condor. Forse perché eravamo rimasti troppo scottati dalla tempesta cinesi-Fassone-Mirabelli, consumatasi nello spazio di pochi giorni. E abbiamo trascurato che Gazidis era stato chiamato non a caso, ma per il lavoro fatto in anni e anni all’Arsenal. Già, il mitico «modello Arsenal» ce l’avevamo davanti agli occhi. Nessun mistero. Ed era e non è è altro che quello descritto dal nostro manager nel «manifesto». Ma oggi non è un anno fa. Oggi, dopo aver sentito l’odore della Chamopions più vicino che mai, ci svegliamo e ci chiediamo cosa abbia vinto l’Arsenal negli anni di Gazidis. E per avere la risposta basta uno smartphone e wikipedia. 

Amici cari, era già chiaro prima, ma da lunedì lo è ancora di più. La minestra da sorbire da qui a non si sa quando è questa. Amara per noi milanisti, ma sicuramente – dal mio punto di vista  meglio del rancio acido degli ultimi anni. Quello era tossico, questa magari fa schifo, ma è un brodino salutare. Da bere tutto d’un sorso con la speranza che, prima o dopo, qualcuno, in qualche parte del mondo, si svegli con quella pazza idea in testa.

Così è se ci pare, cari amici. E purtroppo, se non ci pare, così è lo stesso.

Marco Traverso

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Giornalista professionista, marketing & communication manager, social media manager, fotografo amatoriale, milanista, tonsore.