Come avevo sperato, l’aria di mare ha guarito – o almeno migliorato decisamente – il paziente Milan, che con Samp e Genoa si è rilanciato in classifica per poi confermare il filotto positivo contro l’Udinese. Riuscendo anche a limitare i danni a Siviglia, nonostante una serie di infortuni a catena che dimostrano che la fortuna è cieca ma la sfiga vede dieci decimi. E tanto per gradire, con mezza squadra titolare in infermeria, domenica arriva la Juventus di Cristiano Ronaldo, peraltro probabilmente bella incazzata dopo lo smacco subito contro il Manchester United corredato dal godurioso siparietto finale di José Mourinho. Arriveranno incazzati e determinati e troveranno una squadra incerottata ma, sono certo, compatta. Già , perché la differenza di questo Milan rispetto a quelli disastrosi degli anni scorsi sta tutta in una parola: compattezza. E pensare che questa compattezza è rimasta salda nonostante certi i bocconi avvelenati mediatici che avrebbero destabilizzato anche l’ambiente più granitico. Prima si sono inventati il caso Montolivo: pareva, a leggere certe firme di peso, che tutti i problemi del Milan derivassero dall’accantonamento per scelta tecnica di un mediano 33enne peraltro mai davvero decisivo nei suoi anni in rossonero. Il Mian andava male? Era perché non giocava Montolivo, capito? Era diventata un’ossessione, tanto che la domanda su Montolivo, prima o dopo, arrivava puntuale in conferenza stampa, quasi a voler strumentalizzare il momento di difficoltà dell’ex capitano in chiave anti Gattuso. Poi, quando il mister ha dimostrato che anche con l’assenza di Biglia avrebbe fatto a meno del centrocampista di Caravaggio, rilanciando Bakayoko, e dopo tre vittorie consecutive che non si vedevano da un pezzo, ecco che arriva – puntuale come un orologio svizzero, guarda caso proprio nella settimana della Juventus, la notizia che la Società sarebbe già in parola con Aresene Wenger per il prossimo anno. Altra mazzata sulla testa di Gattuso e all’ambiente, fortunatamente subito disinnescata con smentita di tutte le parti. Eppure, nonostante le miccette sparate da chi non si rassegna al nuovo corso, il Milan da qualche settimana si è ritrovato. E anche le reti in zona Cesarini non sono soltanto frutto della buona sorte. Anzi. Sono sintomo di carattere, di determinazione. Per segnare al 95esimo devi essere nell’area avversaria, al 95esimo, tanto per capirci. Devi crederci fino alla fine. Uno, due o tre anni fa, quelle reti non le avremmo segnate. Ora arriva la Juve. E immagino già certi avvoltoi che girano sopra la testa di Gattuso, pronti ad attaccare senza pietà in caso di sconfitta, magari proprio perché al posto di Biglia non ha giocato Montolivo. Parliamoci chiaro: anche per i tanti infortuni noi partiamo stra sfavoriti. Per sfangarla non si potrà certamente far conto sulla  classe dei singoli ma sul il veleno – per citare il mister – di tutti gli undici che scenderanno in campo. Che dovranno pensare innanzitutto a non prenderle, a lottare fisicamente come leoni e poi, se sarà , sarà … Cattiveria contro classe. Rabbia contro superiorità tecnica. Umiltà contro sicurezza. Solo così potremmo uscire da San Siro con il sorriso sulle labbra. Gattuso lo sa e sta provando a farlo imparare a memoria ai suoi. Speriamo.
Leonardo Bonucci è un professionista. Tanto professionista da aver scelto di evitare la sceneggiata della finta compostezza dopo il gol alla sua ex squadra nel suo ex stadio. Anche se di quella ex squadra era stato più volte capitano. Anche se con quella ex squadra ci aveva vinto scudetti su scudetti. Anche se grazie a quella ex squadra era diventato Leonardo Bonucci. Proprio per questo, proprio per coerenza con l’esultanza di noi tutti insieme a lui di fronte a quel gesto del dito che ruotava intorno alla bocca gonfia sotto la curva dello Stadium di Torino, San Siro dovrebbe evitare di fischiare il capitano dello scorso anno. Anche perché con il Milan, Bonucci, non si è comportato male. E’ arrivato per le note ragioni, si è sempre comportato in maniera esemplare e quando ha sentito la necessità di tornare sotto la Mole ne ha parlato, non ha obbligato o ricattato nessuno e, insieme alla società , ha trovato una soluzione che ha soddisfatto tutte le parti in causa. Nessuna esclusa. Poi i tifosi ragionano con il cuore più che con il cervello. E’ normale. E’ umano. Capita anche a me, a caldo. E quando hanno sentito le dichiarazioni d’amore per la grande ex riabbracciata e il ravvedimento pubblico per il «tradimento» non l’hanno presa bene. Ma ragioniamoci. Cosa avrebbe dovuto dire di diverso il fischiatissimo (nell’ultima partita allo Stadium) Bonucci, davanti a 40 giornalisti, dopo lo strappo di quell’addio, di quel gol e di quella esultanza? In un calcio in cui tutti i nuovi arrivati erano tifosi della squadra da bambini, in cui le città in cui si va a giocare son sempre stupende e i tifosi sempre speciali, unici, eccezionali, avrebbe dovuto forse, Bonucci, parlare in conferenza stampa di presentazione del ritorno a casa dell’amore – seppur fugace – per il Milan o salutare i suoi ex tifosi in un momento in cui l’obiettivo era quello di evitare di essere sommerso di fischi a ogni partita in casa e ricucire con l’ambiente bianconero, con lo spogliatoio, con il mister, con lo stadio e con gli ultras? Certo che no. Bonucci non ha mancato di rispetto al Milan. Ha fatto, nel bene e nel male, il professionista. Che ci piaccia o meno. E – anche se non succederà – sarebbe bello che San Siro glielo riconoscesse. Non con applausi o ringraziamenti, sia chiaro. Ma nemmeno con i fischi ad personam che ci metterebbero sullo stesso piano di quegli altri. Anche perché le situazioni, prima di giudicarle, bisognerebbe conoscerle a fondo.
Nelle ultime ore è tornato d’attualità il nome di Zlatan Ibrahimović come eventuale e possibile rinforzo di gennaio per l’attacco rossonero, che ad oggi, come attaccanti puri, non dispone di alternative valide a Higuain e Cutrone. Il nome emoziona ancora e porta alla mente reti spettacolari e vittorie emozionanti. Qualche tempo fa avevo scritto che il ritorno di Ibra in rossonero sarebbe stata cosa ottima, ma solo alle giuste condizioni. A leggere le dichiarazioni e gli ammiccamenti dello svedese, però, pare che lo spirito non sia quello che avevo auspicato. Dopo aver lanciato l’amo su un possibile ritorno in rossonero, Ibra ha specificato che un rientro in Europa sarebbe possibile «solo per fare la differenza» e la ragione per la quale non sarebbe tornato al Psg è che «se torno a Parigi è per essere il capo, è l’unico modo, non esiste un altro ruolo per me». Piccolo passo di lato: stiamo parlando di un giocatore che il 3 ottobre ha compiuto 37 anni e che, dopo una carriera super, due anni fa, ha scoperto, a Manchester, di essere drammaticamente umano, come tutti gli altri. Ha scoperto che gli anni passano anche per lui, che gli infortuni capitano più spesso a 35 anni piuttosto che a 26 e che per la prima volta non riusciva più a fare la solita differenza. Non a caso, rientrato dal grave infortunio, dopo qualche pallida prova è stato spedito a fare la differenza là dove avrebbe potuto davvero ancora farla, negli Usa. Fermi tutti, prima di sbranarmi: io penso che Ibra, se ben dosato e se arrivasse con la mentalità giusta e con la voglia di mettersi a disposizione (e non di fare «il capo») della squadra, sarebbe una risorsa preziosissima, anche a livello motivazionale. Ma se, al contrario, arrivasse un 37enne con ambizioni di titolarità e di leadership allora, a malincuore, dico che a questa squadra non servono «capi». Di «capo» ce ne deve essere solo uno e deve star seduto in panchina. A questa squadra serve un ottimo attaccante da ruotare con Higuain e Cutrone. Nonostante l’affetto per il ricordo di quel giocatore che è arrivato in una sera del 2011 e nonostante la stima della sua immensa classe – che l’età non ha certamente intaccato – credo che il Milan in questo momento di tutto abbia bisogno, tranne che di elementi che potrebbero creare agitazioni in uno spogliatoio che, fino ad oggi, ha fatto della compattezza e dell’unione di intenti la propria principale forza.
Marco Traverso
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