Il titolo può sembrare provocatorio, ma se esaminiamo con attenzione e disincanto il ruolo giocato da Elliott nelle vicende legate alla cessione del Milan dal 2016 ad oggi ci accorgeremo che ogni tassello sembra lentamente andare nella sua giusta posizione, a comporre un quadro dai contorni via via più definiti.
La genesi
Molte cose sono già state dette ma un refresh può essere utile per inquadrare la situazione nella sua complessità partendo dalle origini, quella primavera del 2016 in cui Fininvest sta trattando la cessione del Milan ai “cinesi”; nello stesso periodo il gruppo del Biscione sigla un accordo per la cessione di Mediaset Premium a Vivendi, colosso francese nel settore dei media, ma di lì a poco escono conti trimestrali di Premium che evidenziano un rosso ben superiore alle attese, inducendo Vivendi a ripensarci e ad impugnare l’accordo già stipulato.
Come diretta conseguenza della mancata cessione di Premium, i prezzi delle azioni Mediaset crollano in borsa, dando modo a Vivendi di iniziare una scalata ostile per il controllo della società attraverso il rastrellamento di azioni sul mercato: stiamo parlando di un settore nevralgico per la sicurezza nazionale come quello dei media, lo stesso governo italiano dichiara di avere allo studio adeguate contromisure per contrastare la scalata dei francesi, e in quei mesi convulsi le caparre che arrivano a tranches dai “cinesi” sono manna dal cielo che consentono a Fininvest di contrastare la scalata ostile rastrellando a sua volta azioni Mediaset sul mercato.
In questa fase Elliott si limita a giocare un ruolo indiretto, prestando a Yonghong Li i famosi 300 milioni necessari a chiudere il deal con Fininvest, fissa un modico tasso dell’11% ottenendo a pegno le azioni del Milan quale garanzia di restituzione a 12 mesi, e già che c’è piazza alcuni uomini di fiducia nel CDA del nuovo Milan per vigilare sull’operato dei cinesi, tra i quali un fedelissimo di Silvio Berlusconi della prima ora come Paolo Scaroni, vicepresidente di Rothschild.
Non casualmente, pochi mesi dopo Elliott fa il suo ingresso in pompa magna nel capitale azionario di TIM, altro settore nevralgico per la sicurezza nazionale, ed anche in questo caso il nemico comune da contrastare, guarda un po’, sono i francesi di Vivendi: è forte l’impressione che si stia combattendo una battaglia strategica per il controllo del settore media/telecomunicazioni (che è ancora più che mai in corso ai giorni nostri) e che in questo quadro la cessione del Milan sia un semplice effetto collaterale, una piccola pedina sulla quale si è disposti a chiudere un occhio (forse due) in nome di interessi superiori.
La presa di possesso
Quando Yonghong Li (stranamente) non riesce a restituire il prestito ed Elliott escute il pegno prendendo possesso del Milan senza colpo ferire, l’impressione generale è quella di essere finiti sotto il controllo di mani forti: accompagnato dalla sua fama di fondo “avvoltoio”, capace in passato di mettere in difficoltà Stati Sovrani grazie all’abilità dei suoi legali “belva”, la prima mossa di Elliott è quella di ottenere il ribaltamento al TAS della sentenza Uefa con riammissione della squadra in Europa, e di chiamare in società un manager di esperienza come Leonardo e una bandiera come Maldini, che fanno da apripista all’ingresso nei quadri dirigenziali del super-manager Ivan Gazidis.
Reduce da un’esperienza pluriennale in Premier League all’Arsenal dove pare sia stato in grado di far lievitare in maniera esponenziale il fatturato dell’Arsenal attraverso la leva delle sponsorizzazioni e dei ricavi da stadio, nell’immaginario collettivo diventa l’uomo degli sponsor, nella realtà dei fatti con il passare dei mesi si rivela essenzialmente per quello che è, l’uomo di fiducia di Elliott per il controllo dei conti.
Dopo i brevi voli pindarici iniziali, emerge con tutta evidenza come il Milan sia stato preso in conto vendita come una qualunque azienda decotta sull’orlo del fallimento e dunque debba subire la stessa triste sorte di una qualunque azienda nelle stesse condizioni: controllo ferreo dei costi, taglio di qualunque spreco, tentativi di ristrutturazione del business per renderla nuovamente profittevole ed appetibile per un nuovo acquirente.
In buona sostanza, ad Elliott tocca il lavoro sporco che Berlusconi non ha saputo, potuto o voluto fare: tagliare i rami secchi, eliminare gli sprechi, rimettere i conti in ordine… la patata bollente che si ritrova in mano viene gestita con il cinismo tipico di un fondo di investimento, nella sostanza attraverso una fredda analisi costi-benefici.
La discutibile gestione della parte sportiva
Da questo punto di vista Elliott manifesta i suoi limiti più evidenti, dettati dalla totale inesperienza nel settore specifico.
Nel primo anno affida il mercato nelle mani di Leonardo, che nel poco tempo a disposizione sembra mettere assieme una rosa decente in grado di competere per un posto in Champions, cosa che effettivamente accade fino all’ultimo quarto d’ora dell’ultima partita; con il senno di poi, gli acquisti di Caldara e Higuain si rivelano disastrosi, gli investimenti molto onerosi su Piatek e Paquetà un abbaglio destinato ad allargare ulteriormente il buco di bilancio e l’annata finisce per chiudersi con molti rimpianti, non ultimo quello legato ad una gestione dissennata del rapporto con l’allenatore nel momento topico della stagione.
A fine stagione Leonardo e Gattuso tolgono il disturbo, ed Elliott decide di affidare la gestione sportiva al tandem Boban-Maldini, due bandiere inattaccabili sotto il profilo dell’amore per il club, con competenze calcistiche indiscutibili e carisma da vendere a quintali, ma sostanzialmente acerbi per il ruolo che sono chiamati a svolgere.
E la loro inesperienza li porta a compiere il peccato originale nella scelta del coach, viene chiamato un allenatore di seconda fascia come Giampaolo potenzialmente bravo a lavorare coi giovani ma purtroppo del tutto inadatto a reggere dal punto di vista psicologico alle pressioni di una grande piazza: la squadra mette assieme la peggior partenza degli ultimi 80 anni, l’allenatore viene esonerato ad inizio ottobre e al suo posto viene chiamato il traghettatore Pioli.
Fino alla sosta natalizia la situazione non è che cambi granché, la media punti del subentrante ricalca sostanzialmente quella del predecessore, la squadra procede tra alti e bassi che la tengono appena al di sopra della zona retrocessione fino ad arrivare all’umiliante sconfitta di Bergamo.
E’ una batosta così cocente che produce un paio di effetti decisamente rilevanti.
Nell’immediato, viene chiamato al capezzale rossonero un taumaturgo che risponde al nome di Zlatan Ibrahimovic (ma diciamoci la verità, il sentire comune del momento è che anche Lui possa fare ben poco in quella situazione).
In prospettiva, Gazidis provvede a bloccare per l’anno successivo Ralf Rangnick, plenipotenziario alla parte calcistica del gruppo Redbull, al quale vengono promessi pieni poteri per la gestione futura del mercato e della squadra: la cosa dovrebbe rimanere sottotraccia fino a fine stagione, ma gli spifferi che soffiano impetuosi dalle parti di casa Milan portano Boban a sbottare in un impeto di orgoglio che lo conduce al licenziamento.
Nel frattempo accade quello che non ti aspetti, Jesus Christ number 21 prende pieno possesso della situazione tecnica, Jesus number 8 viene spedito a Siviglia e la squadra cambia finalmente modulo passando ad un 4-2-3-1 più consono alle caratteristiche tecniche di molti dei suoi interpreti, giocatori come Kessie e Calhanoglu respirano osmoticamente il carisma di Zlatan salendo di rendimento, e giovani talenti come Theo, Bennacer e lo stesso Leao, che sembravano poco più che scommesse, dimostrano che forse chi li ha scelti ha avuto l’occhio lungo.
Nel segmento post-Covid il Milan mette addirittura in fila una serie di risultati che lo pongono al vertice delle classifiche di rendimento europee (9 vittorie e 3 pareggi), mettendo finalmente in mostra bel gioco e padronanza del campo, tanto che la sera del 21 luglio si giunge al clamoroso ribaltone alla fine della partita col Sassuolo: Rangnick può restare dov’è, Pioli-Maldini e Massara vengono confermati, il totem Ibra finirà per rinnovare un altro anno (naturalmente lo fa alle sue condizioni, carissime, e a mio modo di vedere fa più che bene). La scelta di continuare con Ibra può essere letta come un all-in dai più pessimisti o come una delega opportunista dai più maliziosi, ma in tutti i casi non sembra potessero esserci molte alternative con la stagione successiva alle porte.
Cosa dobbiamo attenderci adesso?
Il futuro, come si suol dire, è nelle mani degli Dei, eppure qualche ipotesi su quello che accadrà nei prossimi anni è lecito azzardarla, esaminando le linee guida che caratterizzano il presente.
L’AUMENTO DEL FATTURATO
Dal punto di vista economico, ad oggi è il vero punto dolente della gestione Elliott: i ricavi da sponsor non sono lievitati (e non poteva essere diversamente, visti i risultati sportivi), gli incassi da botteghino sono rimasti stabili (fino alla batosta Covid), il merchandising non decolla per i noti motivi.
Una spinta decisiva potrebbe arrivare dall’ingresso in Champions League nell’immediato e dalla realizzazione del nuovo stadio nel medio lungo termine, per la quale sembrano essere stati fatti concreti passi avanti negli ultimi mesi.
LA RIDUZIONE DEI COSTI
Sotto questo aspetto, è stato fatto un lavoro egregio, posto che il monte ingaggi è passato dai 111 milioni lordi della stagione 18/19 ai 94 milioni dello scorso anno. Ed esaminando la tabella a fianco è facile rendersi conto che il dato è destinato a migliorare ancora nella prossima stagione, posto che sono usciti 8 giocatori sostanzialmente ai margini della rosa che cubavano oltre 35 milioni lordi: anche aggiungendo gli stipendi di Ibra, Saelemaekers, Kjaer, Diaz e Tonali rimane spazio per un paio di giocatori con ingaggio medio-alto.
La cosa rilevante è che questa riduzione del monte ingaggi non si è accompagnata ad un depauperamento della rosa, tutt’altro, basta dare un’occhiata a Transfermarkt che non è la Bibbia ma qualche indicazione oggettiva la fornisce: i 9 giocatori di maggior pregio della rosa (Donnarumma, Romagnoli, Hernandez, Kessie, Bennacer, Tonali, Calhanoglu, Rebic e Leao) portano in dote un valore complessivo superiore ai 300 milioni di euro, con un’età media leggermente inferiore ai 23 anni.
Affermare insomma che il progetto tecnico del Milan è affidato alle sorti di un quarantenne contiene un fondo di verità per quello che si è visto negli ultimi mesi ma può sembrare un’ ingenerosa semplificazione, soprattutto se il processo di crescita dei compagni consentirà ad Ibra di passare dal ruolo di lievito a quello di ciliegina sulla torta.
IL RIGORE DI BILANCIO
Può sembrare paradossale parlarne dopo una perdita certa di 155 mln nel 2019 ed una probabile di 100 nel 2020, ma le politiche di bilancio di Elliott sono caratterizzate da principi rigorosi nel metodo e nella sostanza: niente debiti con le banche (e connessi oneri finanziari), robuste iniezioni di mezzi propri a copertura delle perdite, e soprattutto niente aggiustamenti fittizi di conto economico tramite plusvalenze farlocche. Aggiustare le poste di bilancio tramite scambi gonfiati di calciatori con società satellite apporta benefici fittizi nell’immediato ma carica di gravosi ammortamenti gli esercizi successivi, innescando un circolo vizioso destinato prima o poi ad implodere (presto o tardi succederà, il cedimento di un anello debole farà saltare tutta la catena)
Una paziente opera di lobbying per arrivare alla costruzione del nuovo stadio, il tentativo di costruire una rosa giovane con monte ingaggi sostenibile, un rigore contabile finalizzato alla presentazione di bilanci veritieri: gli elementi potenziali in grado di attrarre un nuovo compratore serio e credibile sembrano esserci tutti.
Forse non sono concetti adatti ad esaltare una tifoseria, ma arrivando da un decennio di traversata nel deserto iniziata coi disastri gallianeschi dei feretri zero e continuata con le lavatrici cino-brianzole riesce difficile immaginare scorciatoie più credibili.
Max
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